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Nella vita quotidiana lo stress, con tutti i suoi correlati (ansia, depressione, emozioni difficili, somatizzazioni e così via) ci fa una costante compagnia. In realtà lo stress è una antica risposta fisiologica di adattamento, che si attiva nelle situazioni di minaccia, mobilizzando tutte quelle risorse (ormoni ,come il cortisolo, l’ ADH, l’ACTH, l’adrenalina, pressione sanguigna aumentata, battito cardiaco e respiro aumentato, ecc.) che ci consentivano di sopravvivere, cioè con l’organismo nelle migliori condizioni per combattere o fuggire.
Purtroppo, per quanto questo meccanismo ci serva molto di meno, si attiva anche in situazioni in cui il pericolo non è reale, ma in cui abbiamo emozioni difficili da gestire. Le conseguenze sono non solo mentali (già basterebbero!), ma anche fisiche, considerato che i meccanismi che si attivano come funzione di adattamento , sono proprio quelli che portano, alla lunga, ad un esaurimento sia fisico che mentale.
Per fortuna in noi è innato anche un sistema contrapposto a quello di allarme, quello che ci calma, che si prende cura di noi, quello che ci consola, cioè il sistema di sicurezza e benessere, la cui funzione è di promuovere i comportamenti sociali affiliativi, il senso di appartenenza, la capacità di instaurare relazioni interpersonali intime e che si attiva quando non dobbiamo affrontare minacce o pericoli e, allo stesso tempo, abbiamo risorse sufficienti. Le emozioni offerte da questo sistema sono il senso di pace, di benessere e di tranquillità; uno stato di "non ricerca” che si ritiene possa essere sperimentato durante le prime esperienze di attaccamento con i propri genitori, a condizione che queste siano positive. Questo sistema è innato, essenziale all’evoluzione della specie, ma siamo poco abituati ad utilizzarlo, al di fuori di alcune situazioni di vita (innamoramento, maternità, empatia, partecipazione emotiva). Dovremmo, quindi, allenarci a svilupparlo, considerato che numerosi studi scientifici depongono per miglioramenti significativi in tema di benessere. In termini concreti: diminuzione di ansia, stress, senso di vergogna, senso di colpa e delle rappresentazioni corporee negative.
Dalle ricerche risulta anche significativo il crescere degli stati mentali positivi, come il senso di felicità, l’ottimismo e la soddisfazione. Vi è anche correlazione con un miglioramento del benessere fisico. Gli stati mentali negativi vengono alleggeriti, mentre vengono generati quelli positivi.
Dal punto di vista clinico uno dei primi studiosi che se ne è occupato è P. Gilbert (Compassion Focused Therapy), con le sue ricerche sul senso di colpa, sulla vergogna e sull’autocritica, da lui ritenuti elementi centrali di molti disturbi psicologici, dalla depressione alle psicosi. In area statunitense K. Neff, psicologa ricercatrice dell’Università de Texas, e C.K. Germer, psicologo clinico dell’Università di Harvard, hanno integrato i principi e la pratica meditativa con la psicoterapia sviluppando il programma MSC (Mindful Self-Compassion), attualmente anche in Italia e in rapido sviluppo in tutto il mondo.
Prima di parlare di Self-Compassion conviene definire alcuni termini.
Compassione (dal latino cum patire) significa sentire la sofferenza dell’altro e desiderare di poter fare qualcosa per alleviarla. Nella compassione vi è una prima parte emozionale (“ti sento”), una seconda cognitiva (“ti capisco”) e una quota motivazionale (“voglio aiutarti”). Nel momento in cui queste azioni sono rivolte verso noi stessi, allora possiamo parlare di Self-Compassion.
La Self-Compassion è costituita da 3 elementi principali:
Con la self-compassion ci trattiamo con gentilezza, ci prendiamo cura e siamo comprensivi e di sostegno a noi stessi, allo stesso modo in cui tratteremmo un caro amico. La maggior parte delle persone, invece, si tratta in un modo molto duro, dicendo a se stessi cose così crudeli che non direbbero mai a nessuno.
La compassione comprende anche una parte attiva nel provare ad alleviare la sofferenza. Questo significa agire per ammorbidirci, calmarci e metterci a proprio agio quando stiamo male.
Nella self-compassion riusciamo a vedere le nostre imperfezioni come parte di una più vasta esperienza umana. Ci riusciamo a rendere conto che ognuno soffre, questa è la normalità.
Tuttavia, quando facciamo una enorme fatica o quando sbagliamo, sentiamo che le cose non sono andate come avrebbero dovuto e che questo non doveva accadere. Questi pensieri creano un senso di anormalità, che ci isola moltissimo (come se tutto il mondo avesse una vita perfetta, normale e felice – ma non io)
Per poter rispondere con compassione alla nostra sofferenza, dobbiamo prima renderci conto che stiamo soffrendo. La mindfulness ci permette di rivolgerci verso la sofferenza e di stare con quello che c’è. Mindfulness è anche uno stato mentale di equilibrio. Proviamo a non sopprimere né evitare quello che stiamo sentendo e nemmeno venire trascinati via dalla nostra drammatizzazione di quello che accade (sovraidentificazione).
Le ricerche scientifiche (ad oggi sono oltre 600) dimostrano che chi utilizza la Self-Compassion presenta una maggiore capacità di adattamento in situazioni difficili (trauma, dolori cronici, divorzio, ecc), maggiore responsabilità nelle proprie azioni, aumentate risorse di riprendersi da eventi negativi e capacità di perseverare, minore paura dei fallimenti, essere in grado di attuare comportamenti salutari verso sé stessi, essere capaci di provare maggiore compassione verso gli altri e di saper mediare e arrivare a compromessi in situazioni complicate. In breve, si sono riscontrati una riduzione degli stati mentali negativi: ansia, depressione, stress, ruminazione, soppressione dei pensieri, perfezionismo, vergogna e un aumento degli stati mentali positivi: soddisfazione della propria vita, felicità, connessione con altri, fiducia in sé stessi, ottimismo, curiosità, gratitudine.
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